Guido Reni – la strage degli innocenti
C’è un’immagine ricorrente dal secondo dopoguerra in avanti nell’immaginario collettivo italiano; quell’immagine è presente in buona parte dei manuali di storia delle superiori ed è la foto di Benito Mussolini appeso a testa in giù in Piazzale Loreto, a Milano. Era il 28 aprile del 1945 il giorno in cui quella foto fu scattata per rimanere a memoria futura: finalmente il duce, il carnefice, aveva ricevuto quello che si meritava!
Questa immagine ha contribuito fortemente, secondo me, nel costruire la simbologia che si racchiude nella figura del carnefice per noi italiani/e: quella del centauro un po’ bestia, un po’ uomo. Non solo. Quell’immagine porta dietro con sé anche un contro agito fortissimo che esplicita la cultura dello stivale, dove a pagare per le colpe di uomini carnefici bisogna includere sempre anche il corpo di una donna come mediatore delle vergogne compiute da questo: accanto a Mussolini, infatti, fu appeso per i piedi pure il corpo di Clara Petacci.
A questa figura di stampo mitologico – il centauro – si unisce lo status di straordinarietà che la figura del carnefice ha assunto nella contemporaneità; straordinarietà nel senso proprio di non-ordinarietà, o meglio di a-tipicità appartenente a colui che si manifesta come non-umano. Insomma, si applica a questa figura un processo simile a quello che in psicoanalisi si identifica come pseudo-speciazione cioè l’eccesso di distanziamento e diffidenza nei confronti di persone o gruppi rispetto al sentimento collettivo. Una volta avvenuta l’eliminazione dal sentimento collettivo, queste persone o gruppi cominciano ad essere percepiti non più come appartenenti alla stessa specie o collettività, appunto, ma come qualcosa di altro, di diverso, addirittura come non più umani, bensì cose (per un approfondimento sulla simbologia del centaurismo, rimando a Luigi Zoja, “Centauri. Mito e Violenza Maschile”).
Sarà per questo che la figura del carnefice si identifica sino a sovrapporsi con quella della bestia, del pazzo, del folle, dello squilibrato rafforzata da un agito in grado di perpetuare azioni non riconducibili alla normalità, all’ordinarietà e quindi alla disumanità con l’aggravante odierna di venir declinato erroneamente dai mass media con l’appellativo di raptus.
Chi commette violenze, anche nel tempo, sembra non rispondere all’immagine dell’uomo comune, ordinario per la buona parte degli/delle italiani/e.
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