Sara di Petroantonio non è più tornata a casa. Nonostante avesse voluto, come testimonia l’ultimo sms scritto dalla giovane alla madre poche ore prima di essere speronata, uccisa e data alle fiamme dal suo ex. Insieme a lei, pochi giorni dopo, altre donne hanno subìto la medesima sorte per mano di mariti, ex mariti o compagni. Prima di lei molte donne sono morte ammazzate per mano di carnefici che dicevano di amarle.
La morte della ragazza (e di molte altre donne che in questi anni sono state uccise da uomini violenti) è stata annunciata in parte – ancora – da giornali, stampa e tv come un “omicidio” o un “assassinio” qualunque producendo un necrologio senza fine e privo di senso. Il linguaggio usato – maschile neutrale – richiama una totale incapacità di farsi carico delle narrazioni. Nonostante la parola femminicidio sia stata coniata per ribadire la violenza maschile estrema sulle donne, ponendo alla base il legame relazionale e/o presunto sentimentale che intercorre fra la vittima ed il suo carnefice, si fa ancora molta difficoltà ad utilizzarla appropriatamente nel linguaggio main stream. A ricordarcelo brillantemente e con lucida precisione è Michela Murgia, la quale dalla sua pagina facebook sottolinea per inciso:
La parola “femminicidio” non indica il sesso della morta.
Indica il motivo per cui è stata uccisa.
Una donna uccisa per caso durante una rapina non è un femminicidio.
Sono femminicidi le donne uccise perché si rifiutavano di comportarsi secondo le aspettative che gli uomini hanno delle donne.
Dire omicidio ci dice solo che qualcuno è morto.
Dire femminicidio ci dice anche il perché.
Da anni associazioni di donne (ma anche di uomini vd. Maschile Plurale), femministe, giornaliste e rappresentanti politiche si spendono sul tema più importante e meno accreditato nella cultura opinionista di questo paese: il linguaggio sessista e (a volte) manipolatorio. Quella cosa con cui non solo ci esprimiamo, ma rappresentiamo il mondo in cui viviamo, le relazioni in cui siamo coinvolti/e che simbolizza e dà luogo ad immagini e rappresentazioni nel nostro quotidiano.
Non è una questione da intellettuali o da specialisti.
Non lo può essere quando rappresenta una questione sociale così importante; quando sottende ad una cultura dei rapporti fra sessi così specifica che ci chiama dentro tutti e tutte.